50 giorni in Chiapas




Scritto (87 pagg.) da richiedere all'Associazione S.O.S Mondo Nuovo


«Avevo il presentimento che la fase “itinerante” della mia vita si sarebbe presto conclusa. Prima che si insinuasse dentro di me il malessere della sedentarietà, pensai, dovevo riaprire questi taccuini. Dovevo mettere sulla carta un riassunto delle idee, delle citazioni e degli incontri che mi avevano divertito, che mi tornavano in mente spesso e che speravo avrebbero fatto luce su quello che per me è l’interrogativo primo: qual è la natura dell’inquietudine umana?

In una delle sue pensée più cupe, Pascal disse che la fonte di tutte le nostre sofferenze era l’incapacità di starcene tranquilli in una stanza.

Perché, domandava, un uomo che ha di che vivere sente lo stimolo a trovare un diversivo in qualche lungo viaggio per mare? O a vivere in un’altra città, o a andarsene alla ricerca di un grano di pepe, o in guerra a spaccar teste?

Scoperta la causa delle nostre disgrazie, Pascal volle anche capirne la ragione, e dopo averci riflettuto ne trovò una ottima: e cioè la naturale infelicità della nostra debole condizione mortale; così infelice che, se ci concentriamo su di essa, nulla può consolarci.

Solo una cosa può alleviare la nostra disperazione, ed è lo svago (divertissement); eppure proprio questa è la peggiore di tutte le nostre disgrazie, perché lo svago ci impedisce di pensare a noi stessi e ci porta gradualmente alla rovina.

Chissà, mi domandavo, se il nostro bisogno di svago, la nostra smania di nuovo, era, in sostanza, un impulso migratorio istintivo, affine a quello degli uccelli in autunno? Tutti i grandi maestri hanno predicato che in origine l’uomo “peregrinava per il deserto arido e infuocato di questo mondo”- sono parole del Grande Inquisitore di Dostoievkij -, e che per riscoprire la sua umanità egli deve liberarsi dei legami e mettersi in cammino.

(Dalle mie ricerche per il mondo si veniva a) confermare l’ipotesi con cui mi baloccavo da tanto tempo: e cioè che la selezione naturale ci ha foggiati - dalla struttura delle cellule cerebrali alla struttura dell’alluce - per una vita di viaggi stagionali a piedi in una torrida distesa di rovi o di deserto.

Se era così, se la “patria” era il deserto, se i nostri istinti si erano forgiati nel deserto, per sopravvivere ai suoi rigori - allora era più facile capire perché i pascoli più verdi ci vengono a noia, perché le ricchezze ci logorano e perché l’immaginario uomo di Pascal considerava i suoi confortevoli alloggi una prigione».

(da “Le vie dei canti” di Bruce Chatwin, grande viaggiatore del '900)



Appunti di un viaggio


Sabato 1 marzo 2003 - Dopo aver letto la de­stinazione, la signorina del check-in mi ha guardato con occhi languidi e ha sospirato: “Come le invidio questo biglietto!”.
E' cominciata così, stamattina. Non male direi, per sentirmi incoraggiato ad andare avanti nel viaggio più imprevedibile che abbia mai fatto. Anche lei, come tanti altri, vedeva nel Messico l’avventura, una terra piena di colori, di musica, di vita. E io? Io cosa ci vedo?

Diciassette ore di aereo, soste escluse, undicimila chilometri, ma per andare dove?

Toccato il suolo di Città del Messico, sono stato preso all’improvviso da un vago sentimento di panico: non sarò stato troppo imprudente ad andare incontro a questa avventurosa esperienza senza conoscere niente della si­tuazione che mi aspetta, delle persone che incontrerò? Senza aver avuto con loro insomma un contatto preliminare di conoscenza, di chiarificazione di massima?

Riepilogando: non conosco le persone che mi ospiteranno e loro non sanno nulla di me tranne il nome. Ignoro il luogo dove mi porteranno e non ho la minima idea di ciò che farò. Infine, i miei futuri ospiti non sanno nemmeno che mi sono im­pegnato con il biglietto aereo a fermarmi in Messico quasi due mesi: non sarà troppo? Il che, tra l'altro, significa che per tutto questo tempo essi do­vranno subire la mia presenza e io la loro. Come se non bastasse, mi presento là senza possedere abilità utili a un ambiente che immagino dalle esigenze primarie molto concrete.

Mentre mi guardavo allo specchio della mia camera d’albergo a Città del Messico, ancora incredulo per ciò che mi accadeva, mi sono ripe­tuto un'ultima volta, forse per darmi forza o forse per rimanere concentrato sull'obiettivo, che mi preme stare con dei po­veri, con della gente semplice e provare a conoscerli. Rendermi utile a loro? Sarà diffi­cile.

Lo so che questo sa un po’ di missionario, di romantico o magari di retorico, ma non ho trovato una definizione migliore per la mia esperienza messicana. Cerco in definitiva nei poveri - forse inutilmente, chissà - un’umanità diversa, non falsificata; o quanto meno, l’occasione di spendermi come posso per dare un mio contributo, pur infinitesimale, al loro riscatto.

La cosa singolare è che appena incontrerò i miei ospiti, dei religiosi per l'esattezza, mi affretterò a spiegare loro, semplificando molto, che non ho motivazioni religiose, almeno non in senso classico, e che con la religione ho una specie di convivenza pacifica, di sospensione del giudizio, ma non di familiarità, non di frequentazione. Questa chiarificazione avverrà attraverso un testo breve ma, credo, esaustivo che mi sono fatto tradurre in spagnolo prima di partire. Qualsiasi altra cosa avrò da comunicare sarà affidata quasi esclusivamente alle mie capacità mimiche, visto che non parlo la lingua locale.


domenica 2 marzo 2003 – Sembrava che l’aereo volasse basso, ma io sapevo che stava volando al di sopra di un immenso altopiano e dovevo aggiungere, mediamente, altri 2200 metri alla quota dell’aereo. Quando abbiamo costeggiato una montagna con un pennacchio di fumo bianco sulla cima, ho capito che stavo guardando dall’alto il vulcano che, con i suoi ragguardevoli 5400 metri, aveva fatto tremare la terra meno di un mese fa e messo in fuga i campesinos dei dintorni, come alcune televisioni ci avevano mostrato. Lo scenario era quello di una terra arida e piena di rughe profonde, che viste da più vicino dovevano assumere l’aspetto di grandi canyons, appena guarniti al loro interno da una pelliccia di verde non meglio distinguibile dall’alto.

Dopo una mezz’ora di volo, la terra è parsa improvvisamente sprofondare e il verde è diventato fitto e abbondante: avevamo superato l’altopiano ed era aumentata la percezione dell’altezza. I segni della presenza umana, già scarsi fino a quel momento, sono diventati, per un bel tratto, davvero inesistenti, mentre si sono presentati i primi grandi serpenti d’acqua, che non ho potuto stabilire in quale direzione andassero perché, tutto sommato, avrebbero potuto raggiungere il mare, equidistante, sia scorrendo verso il pacifico, sia verso il golfo del Messico. Poi sono spuntati dei grandi laghi circondati dal verde a dare un tocco di magia al paesaggio, da cui non riuscivo a staccare gli occhi.

Ad un tratto ho aguzzato lo sguardo su una strana macchia di luci comparsa sulla sinistra, estesa e piuttosto abbagliante, nonostante l’altezza da cui la guardavo. Ho girato istintivamente la testa per adocchiare una hostess che mi spiegasse lo strano spettacolo ma non l’ho vista. Più avanti la scena si è ripetuta e presto mi è diventato anche chiaro che si trattava di centri abitati, ma come si spiegava che in pieno giorno avessero le luci accese? E che luci!

Solo più tardi, quando l’aereo si è abbassato per predisporsi all’atterraggio, l’arcano si è rivelato: quei paesini avevano tutti i tetti di lamiera e riflettevano la luce del sole come degli specchi giganteschi. Accidenti, ho pensato, ma come si poteva vivere in quelle case, rese forni a microonde d’estate e celle frigorifere d’inverno?

L’aeroporto di Tuxtla Gutierrez sembrava davvero l’ultimo avamposto della civiltà e dall'aereo la stessa capitale mi appariva come una distesa di favelas (o qualcosa di simile). Accoglieva circa mezzo milione di abitanti e in un angolo della sua campagna, ben lontano dall'abitato, disponeva di una minuscola e spartana pista di atterraggio, senza strutture di assistenza, se non quattro edifici bassi che, visti dall’alto, avevano tanto l'aspetto delle masserie del nostro agro meridionale.

Sceso dall’aereo, mi è sembrato di piombare in una fornace, investito brutalmente da almeno quaranta gradi di temperatura e incapace di intravedere, fuori dall’aeroporto, l’ombra di un albero dove all’occorrenza andare a ripararmi. Un timido tentativo per sbirciare all’esterno e sono ritornato di corsa nella sala d’attesa, già abbandonata dai pochi passeggeri che avevano viaggiato con me. Qui mi sono pazientemente predisposto a un’attesa più o meno lunga di quel "qualcuno" che sarebbe venuto a prendermi e che ancora non vedevo.

Quando finalmente è arrivato, dopo 15 interminabili minuti con gli occhi sull’ingresso, finalmente è arrivato e non c’è stato il problema di riconoscersi: io ero praticamente l’unica persona nella sala e lui aveva il colletto da prete, come prevedevo. Era giovane, di carnagione olivastra, cordiale, col sorriso pronto. Ha colto la mia sofferenza per il caldo terribile e, accompagnando il suo spagnolo con i gesti, mi ha proposto l’aria condizionata. “Te molesta?”. mi ha chiesto per eccesso di cortesia. “No!”, gli ho risposto naturalmente, grato della provvidenziale offerta. Così lui ha messo in funzione il potente e rumoroso condizionatore del fuoristrada e siamo partiti.

Da quel momento, però, la mia sofferenza anziché diminuire è andata velocemente aumentando.: ora anche il motore dell'auto scaricava nell'abitacolo i suoi bollori e faceva a gara con la temperatura esterna per tentare di arrostirmi. Per non sembrare ingrato ho resistito un po', ma poi, sull'orlo di una crisi respiratoria, gli ho consigliato di spegnere ogni "condizionatore" e di aprire i finestrini, perché i quaranta gradi esterni erano preferibili ai sessanta e passa convogliati dal motore.

Dopo quasi due ore di strada tortuosa, abbiamo risalito l’altopiano fino a duemila metri e abbiamo raggiunto San Cristòbal.


Continua..........................................................................

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