POTEVA ESSERE L'ULTIMO VIAGGIO

Chiapas 2010: Appunti di viaggio
(18 maggio – 18 giugno)


I Alla vigilia della partenza, un’amica mi ha salutato chiedendomi: “Cosa porti nella valigia in questo viaggio?”. Eludendo il vero senso della domanda le ho risposto, scherzando, con un banale elenco di effetti personali e per ultimo, più seriamente, con la significativa menzione di un libro, un saggio che parla dell’anima. È un libro che ho già letto ma che sento il bisogno di portare con me, come possibile chiave di lettura di tutto ciò che mi è accaduto in questa straordinaria esperienza e che ancora può accadermi.
Poi, appena sul primo aereo per il Messico, ho sentito risuonarmi nella testa una domanda diversa, del tutto mia, non meno complicata dell’altra ma più incalzante: “Sarà l’ultimo viaggio?”. Un interrogativo che trova molte sue ragioni negli ultimi avvenimenti in Chiapas e mi procura forti e contrastanti emozioni.
Sono ormai all’ottavo viaggio e potrei fare un bilancio significativo dell’esperienza. In tutti questi anni ho percorso un chilometraggio aereo equivalente a oltre duecentomila chilometri, pari a cinque volte il giro della terra, ho parlato come meglio sapevo di povertà e di Maya a diverse migliaia di persone e ho contribuito a raccogliere una cifra in denaro, non so se grande o piccola ma certamente impensabile per me otto anni fa. Ma questo, alla fine dei conti, che significa? È molto ed è niente, a pensarci bene: tutto dipende dagli occhi con cui si guarda l’intera vicenda. Certo, in questi anni mi sono dato molto da fare, ma senza l’aiuto di tante persone sensibili e generose che ho incontrato, i risultati sarebbero stati, allora sì, davvero insignificanti. L’unica risposta alle incertezze e ai dubbi rimane il fatto incontestabile che il progetto colorato del piccolo ospedale per i Maya del Chiapas, disegnato ormai otto anni fa e concepito quasi come un simbolico gesto di speranza, ha preso forma concreta, è lì che si può toccare, con i suoi muri di mattoni e il suo tetto di cemento armato.
Prima tappa del viaggio questa volta è Città del Messico, per preparare insieme ai collaboratori messicani del progetto l’incontro importante che devo avere con il segretario personale del Governatore del Chiapas a Tuxtla Gutierrez, la sua capitale.



II Mexico è una città che non amo particolarmente. E come potrebbe essere altrimenti? È un formicaio di oltre 25 milioni di abitanti, una polveriera di indigenti e disperati, la capitale di uno Stato col primato della criminalità nel mondo. Negozietti di due metri quadrati, che vendono lecca lecca, mentine, patatine e poco più, sono protetti da cancellate e grate metalliche, tanto che il cliente deve porgere i soldi e prendere, che so, il suo lecca lecca infilando la mano in vere e proprie fessure tra le inferriate. Un negozio di casalinghi, di scarpe o di ferramenta ha regolarmente una guardia in divisa al proprio interno che durante il giorno lo sorveglia ininterrottamente.
Ma sembra che tutto questo non basti. La signora che mi ospita mi ha raccontato di essere stata sequestrata per strada due o tre mesi fa da due uomini armati. L’hanno costretta ad andare a casa, prendere il libretto degli assegni, prelevare in banca cinquantamila pesos e consegnarglieli. Un sequestro lampo, molto usato, pare, in America latina. Tutto è accaduto in pieno giorno e in mezzo alla gente, senza che lei trovasse il coraggio di reagire, consapevole del rischio mortale che avrebbe corso. Dopo il suo racconto, ho potuto capire meglio cosa volesse dire sua nipote quando, l’altra mattina, vedendomi uscire di casa mi ha detto accorata: “Buon passeggio, Franco, ma stia attento, stia attento!”. Ora ho maggiore consapevolezza del perché questa città, nonostante l’aria tranquilla della gente per strada (assuefatta? rassegnata?), è ritenuta tanto pericolosa. Lo stato di indigenza della stragrande maggioranza dei suoi abitanti deve determinare una situazione di insicurezza e di criminalità diffusa di enormi proporzioni, e le cronache quotidiane delle gesta efferate dei narcotrafficanti messicani sui giornali nazionali, quando non di tutto il mondo, ne sono una eloquente testimonianza.
Quest’anno ho visto comparire per strada un tipo di “aziende” che non avevo mai notato prima: i banchi dei pegni, quei luoghi a cui le persone in difficoltà economiche ricorrono dando in cambio di soldi i propri oggetti di valore, grandi o piccoli che siano, con la prospettiva, talvolta, di tornare a riprenderli appena superata la personale crisi economica. Adesso qui è tutto un pullulare di “Casa de empeño” con tanto di insegne e pubblicità invitanti all'esterno. Se ne possono vedere a decine in una stessa strada, talvolta a pochi metri una dall'altra, con il loro rassicurante aspetto di Banche tirate a lucido.
Un fenomeno altrettanto impressionante è rappresentato dalla massa di venditori ambulanti di qualsiasi cosa, che sembra non riescano a vendere niente e tuttavia si danno molto da fare. Ai caselli delle autostrade, venti-trenta persone ordinatamente in fila agitano i loro miseri prodotti verso automobilisti del tutto indifferenti. Eppure la loro presenza è costante, mi assicurano, così come è evidente che non riescono a vendere quasi niente, anche se quel “quasi” basta a farli sopravvivere. Stesso spettacolo nella metropolitana, che viene usata quotidianamente da cinque-sei milioni di persone e in cui, come ho avuto modo di sperimentare, per molte ore del giorno ci si accalca come sardine in scatola. Ad ogni fermata entrano nello stesso scompartimento uno-due-tre venditori ambulanti per volta (con CD audio e video, caramelle, creme curative, ecc,), che urlano la loro mercanzia a passeggeri semiaddormentati, annoiati o seccati dal loro strillo pubblicitario e soprattutto decisi a non comprare un bel niente. O meglio, “quasi” un bel niente.
Guardo tutto ciò e mi chiedo perché questa gente che vaga nella più sterminata delle città messicane per ottenere di sopravvivere così a stento, non decide in massa di delinquere e definitivamente. Ma Città del Messico, evidentemente, non è solo questo, e se nelle sue strade puoi essere investito dalla violenza più brutale, da un’umanità allo sbando, puoi anche trovare tra la sua gente latina gioia di vivere e generosità a profusione, essere coinvolto a ballare per strada, scoprire tesori nascosti di ogni tipo. E fare incontri inaspettati, come incredibilmente l’altro giorno mi è accaduto.
Ero andato da un oculista per farmi prescrivere un collirio perché gli occhi per qualche motivo mi bruciavano. Avevo il mio numeretto di arrivo in ambulatorio e mi ero messo seduto lungo un piccolo corridoio che faceva da sala d’aspetto, insieme ad un’altra diecina di persone che attendevano il proprio turno. Sapevo che, se il “flemmatico” Messico quel giorno non si fosse smentito, l’attesa sarebbe stata lunga, molto lunga, per cui mi ero predisposto a colmarla come meglio potevo, osservando un po’ la gente e poi eventualmente, esaurita ogni curiosità, pensando semplicemente ai fatti miei, materiale di cui ovviamente abbondavo. Intanto nell'ambulatorio era entrato un altro paziente, un uomo anziano, che si era guardato intorno ed era venuto a sedersi sulla panca accanto a me, nell’ultimo posto a sedere disponibile.
Quando il medico finalmente era arrivato, aveva cominciato a chiamare i pazienti con il loro numero d’ordine, uno alla volta. Il dottore sembrava pacato e distinto, sapevo che era di origine italiana e che, stando a quanto mi avevano detto, doveva essere bravo. Ero curioso di conoscere l’effetto che gli avrebbe fatto incontrare un paziente italiano: la differenza tra i due mondi è tanta e tale che non mi era facile immaginare un buon motivo perché un giorno lui avesse preferito Città del Messico alla cittadina del nord Italia, vicino Venezia, da cui proveniva.
Mentre riflettevo su tutto questo, l’uomo al mio fianco mi ha rivolto la parola per chiedermi qualcosa che non ho sentito distintamente. Aiutato dalla sua mimica, tuttavia, ho intuito che volesse sapere con quale numero sarei stato chiamato, ma nel dubbio me lo sono fatto ripetere più piano, perché, gli ho spiegato, lo spagnolo troppo veloce non sempre lo afferravo. Avevo il numero quattro e gliel'ho detto, mentre lui mi ha fatto vedere che aveva il 21. Mi ha domandato allora se ero un turista. Non proprio, gli ho detto. Ero in viaggio di lavoro? Più o meno, gli ho risposto. Mi ha guardato sempre più interrogativo. Poteva avere la mia età. Ho notato che aveva le mani sporche o, più verosimilmente, lavate ma non abbastanza da aver perso la patina scura del suo probabile mestiere di manovale o di artigiano alle prese con qualche materiale grasso, untuoso, o con qualcosa che comunque gli imbrattava e macchiava le mani.
Ha continuato ad indagare: mi sarei trattenuto molto a Città del Messico? Solo qualche giorno, gli ho risposto, perché la mia meta era il Chiapas. A questa notizia, la sua curiosità è parsa aumentare, mi ha guardato fisso e mi ha sorriso vagamente. Mi è sembrato pensare a lungo alla prossima domanda che doveva farmi, come se dovesse farmela in una lingua che non conosceva (magari in italiano, ho pensato). In realtà, mi ha parlato in spagnolo ma scandendo piano le parole.
Non mi aspettavo grandi domande da lui perché mi dava l’idea di essere una persona semplice, nonostante la sua faccia esprimesse un interesse fuori dal normale, che non mi spiegavo bene. In breve, domanda su domanda, mi ha costretto affabilmente a fargli un’estrema sintesi del perché andavo in Chiapas e, appena lo ha appreso, ha commentato con naturalezza ma anche con una certa solennità: “Noi uomini andiamo verso la spiritualità”. Mi sono chiesto che cosa mai avesse voluto dire con quelle parole o se ancora una volta dovevo diffidare della mia padronanza dello spagnolo. In ogni caso me lo sono fatto ripetere, perché l’affermazione, così come l’avevo capita, mi aveva colto di sorpresa, tanto quanto mi aveva incuriosito.
Di qui è cominciato un dialogo incredibile, in crescendo, da dove è scaturita una visione della vita che ci accomunava in modo singolare e che condividevamo fino nei dettagli. Siamo passati dalla scoperta di prime assonanze di idee alla sensazione di una speciale empatia reciproca, fino a una sorprendente quasi sovrapponibile identità di pensiero. Da quanto esprimeva, capivo che quell'uomo doveva sapere di progresso scientifico, di filosofia, di cultura a largo raggio insomma, ma non usava mai una citazione, mai uno slogan, un’espressione erudita. Le sue erano parole semplici, erano espressioni di meraviglia e qualche volta di preoccupazione, riferite al destino dell’uomo, alla sua storia, con emozione, senza certezze assolute ma con molta speranza. Mi metteva talmente a mio agio che a lui sono riuscito a comunicare, nonostante la mia lingua ogni tanto s’inceppasse sulle incertezze dello spagnolo, concetti e pensieri che non avevo mai pensato prima, nè condiviso con nessuno fino a quel momento. Eravamo entrambi visibilmente esaltati dalla sintonia dei nostri pensieri, dal nostro comune sentire. Sembravamo due persone che avevano condiviso una vita, come se fossimo cresciuti insieme, se avessimo percorso la stessa strada della conoscenza. La sala d’aspetto, con la gente e il suo chiacchiericcio, con le chiamate del dottore e lo scorrere della sua numerazione d'ordine, a un certo punto è quasi scomparsa, perché noi eravamo assorti in un'altra dimensione, stavamo viaggiando in un altro spazio, fuori dal tempo.
Il dialogo era fluido, senza increspature, e non perdeva continuità e ritmo neanche quando si inerpicava su questioni grandi come montagne. Quando lui iniziava una frase, spesso io gliela completavo, tanto mi erano familiari i suoi contenuti; mentre con altrettanta sintonia e naturalezza lui mi rubava il tempo per proseguire una riflessione o argomentare un concetto che tentavo di esprimere, come meglio io non avrei potuto fare. Abbiamo parlato delle culture primitive e della loro ricchezza, di quella moderna e dei suoi inganni, della comparsa degli umani sulla terra, dell’intelligenza che abita l’uomo e ogni altra forma di vita, vegetale o animale che sia, della storia del mondo e del suo destino. Per finire a parlare di fede, della fede come dialogo, come ricerca, come cammino, come lavoro interminabile. Come libertà. A un certo momento, quasi come un bisogno improvviso, incontenibile, lui mi ha chiesto come mi chiamavo. “E tu?”, gli ho domandato. “Manuel”.
A quel punto, è arrivato il mio turno di visita. Mentre i miei occhi venivano sottoposti a un meticoloso controllo, ho avuto un’essenziale ma piacevole conversazione con il distinto medico italiano, che stentava a trovare tutte le parole della sua lingua d’origine, per le sue domande da medico ma anche per sostenere lo scambio di considerazioni sulla nostra rispettiva presenza in Messico: la sua, con la sua famiglia, stabile e definitiva da più di quarant’anni in quella terra; la mia, quella di un viaggiatore anomalo sempre alla ricerca della meta, che di stabile e definitivo aveva solo un insopprimibile fondo d’inquietudine.
Quando sono uscito dallo studio medico, Manuel era ancora lì al suo posto che mi sorrideva.
“Hai figli?”, gli ho chiesto, sentendo imminente il nostro congedo. “Sì, due femmine e sei nipotini”. “Anch’io ho due figli”, ho aggiunto per completezza. Ci siamo guardati negli occhi e, alternandoci con le parole come avevamo ben imparato a fare, ci siamo detti: “Siamo vissuti in luoghi opposti del pianeta ed è come se fossimo sempre stati insieme, se ci fossimo sempre conosciuti, sempre parlati”.
“Continueremo a parlarci ancora, Manuel”, gli ho promesso assurdamente. Lui, mantenendosi consapevolmente sul piano dell’assurdo, ha aggiunto: “La prossima volta che ci incontreremo ti dirò: ti ricordi, Franco, quel 24 maggio, quando ci parlammo in un ambulatorio di oculista? Io ti riconoscerò e anche tu ti ricorderai di me”. Con un moto incontenibile di emozione ci siamo abbracciati. Dopo, lui mi ha detto una frase, con la raccomandazione di ricordarmela.
Me la sono fatta ripetere, ahimè, tre volte quella frase, perché c’era un termine che mi era nuovo. Alla fine non sono ben sicuro di aver capito, ma credo che mi abbia detto: “Ciò che non abbiamo ancora trovato nel nostro cammino, lo troveremo un’altra volta”. Era un incoraggiamento a non smettere di cercare? A non rinunciare alla ricerca del Senso, di cui abbiamo tanto parlato? E' probabile. E' molto probabile.
“Ciao, Manuel, me lo ricorderò”, gli ho promesso, abbracciandolo un’ultima volta. Non ci siamo scambiati l’indirizzo, non ne abbiamo sentito il bisogno. Forse non ci saremmo più incontrati, ma la comunicazione stabilita era per sempre. C'era almeno un altro uomo sul pianeta, adesso ne ero certo, che sentiva come me, che risuonava in me come una presenza immanente che in qualche modo non mi avrebbe fatto mai più sentire solo.


III La prima cosa che ho fatto oggi, appena messo piede in Chiapas, è stata quella di recarmi alla comunità di Pocolùm (“vecchio pueblo”) per vedere “la costruzione”, l’ospedale grezzo, questa creatura di cui ho spesso bisogno di verificare l’esistenza, come se fosse qualcosa che, essendo scaturita da un sogno o da un progetto che a un sogno somigliava molto, io voglio ancora accertarmi che appartenga davvero alla realtà.
Lungo la strada tortuosa in saliscendi che mi portava alla comunità, ho visto le montagne che si trasformano, si spogliano sempre più di vegetazione e si punteggiano di nuove piccole case di mattoni. Qualche sentiero diventa tratturo, qualche tratturo si copre d’asfalto. È un mondo che cambia, evolve, gravido di incognite. Foriero di promesse ma anche di minacce.
Quando sono arrivato, il sole di metà mattina cominciava a scaldare l’aria oltre misura e il tetto a piramide esagonale del nuovo santuario svettava con il suo rosso vivo in mezzo al verde della vegetazione, visibile da grandi distanze, inconfondibile richiamo religioso per tutte le comunità indios che si affacciano su quel vasto orizzonte. A pochi metri dalla chiesa, l’opera grezza dell’ospedale, con il suo poliambulatorio annesso, ormai punto di riferimento per infermi di ogni tipo.
Con mia sorpresa, ho visto che nell'ospedale c’era gente, una quindicina di giovani “promotori di salute”, uomini e donne, che partecipavano a un seminario tenuto da Rebecca, una terapeuta venuta dalla città. Manuel, il coordinatore dei promotori, mi ha presentato a tutti e mi ha invitato al piano terra, in una saletta al grezzo e senza pavimento, a partecipare ai lavori su un tema così enunciato: “Patologia del rene: rapporto tra emozioni e salute fisica, come difendersi dalla paura”. La dottoressa, molto preparata, era là in veste di volontaria per tenere seminari una volta al mese con i promotori indigeni, anch'essi volontari, con l’ausilio del suo computer e di video appropriati. Non ho capito perché l’emozione che più di tutte venisse presa in esame, per illustrarne la ricaduta sul fisico e sulla sua salute, fosse proprio la paura: o era un’emozione molto presente nel loro ambiente o mi ero perso qualcosa di importante nell'introduzione, se non nella fase iniziale del seminario, prima di arrivare.
Nel momento in cui sono stato invitato gentilmente a dare il mio contributo alla fase di discussione e approfondimento dell’argomento, non ho potuto fare a meno di dare una mia personalissima testimonianza della stretta relazione esistente tra le emozioni e la salute delle persone.
Da oltre dieci anni, ho raccontato, frutto dell’età che avanza, risento di contratture muscolari alle spalle, che si manifestano normalmente con una tensione dolorosa quando assumo una posizione statica che impegna la colonna vertebrale in verticale: bastano venti minuti in piedi, da fermo, e la schiena comincia a farmi male. Benché anche un lungo viaggio in macchina o un periodo prolungato trascorso seduto da qualche parte mi dia lo stesso problema.
Eppure tutto questo, ho riferito ai presenti, inspiegabilmente non si verificò mai la prima volta che venni in Chiapas. Qualsiasi cosa facessi, qualsiasi posizione assumessi, su qualsiasi pavimento dormissi, le mie spalle per due mesi non ebbero mai niente da lamentare, nonostante le dure prove a cui furono sottoposte. Era strano, non me lo spiegavo, ma si verificò esattamente così.
Tornato in Italia, chiesi una spiegazione al mio ortopedico, che conosceva perfettamente il mio problema fisico e mi aveva più volte aiutato a curarlo. Non se lo spiegava bene neanche lui: magari il clima del Chiapas, ipotizzava, l’altitudine delle sue montagne o chissà che altro potesse essere in relazione con le caratteristiche di quella terra. Poi scoprii qualcos’altro di interessante sul fenomeno: mi accorsi, cioè, che stranamente le mie spalle tenevano bene, direi egregiamente, anche quando trascorrevo ore ed ore fermo in piedi a parlare della mia esperienza in Chiapas, con gli studenti nelle scuole o con altra gente, in giro per la provincia di Bari o in qualsiasi altra latitudine qui in Italia, nella mia terra. Dunque non era il clima, non era l’altitudine o qualche altra condizione oggettiva legata al lontano Chiapas che mi toglieva il dolore: erano le emozioni che, dovunque mi trovassi, quella terra straniera e i suoi abitanti maya mi davano a farmi da analgesico, tanto che, al termine di certe mie maratone in piedi a parlare di loro, mi sentivo molto meglio di quando avevo iniziato l’intervento.
Non tutti i partecipanti parlavano spagnolo e c’era uno del gruppo che si incaricava di tradurre tutto in tzeltàl, per cui la partecipazione piena di ognuno dei seminaristi alla discussione è risultata alquanto condizionata dalla diversità di lingua e da quel tanto di timidezza connaturata alla loro giovane età e al loro senso di inadeguatezza rispetto alla modernità. Tuttavia hanno detto di aver colto bene il senso del mio intervento e di averlo trovato in linea con gli obiettivi del seminario. Anche la dottoressa Rebecca ha trovato pertinente e utile la mia testimonianza per la comprensione delle interrelazioni e dei fenomeni psicosomatici oggetto della lezione in corso.
Alla fine della discussione, dopo avermi salutato molto cordialmente, il gruppo usciva dall'ospedale e si disponeva nell'ampio spazio antistante per compiere dei giri in cerchio, mimando movimenti suggeriti dalla terapeuta e realizzando così una specie di danza lenta.


(danza in girotondo)



IV Ieri e oggi sono stato alla missione di Oxhùc, dove tra l’altro dovevo concertare con alcuni amici l’importante trasferta a Tuxtla Gutièrrez per l’incontro con l’esponente del Governo del Chiapas. Il tempo non era un granché, siamo stati al limite tra il fresco e il freddo, con fenomeni improvvisi di pioggia, pioggerella e acquazzoni.
Oxchùc è un agglomerato urbano a un paio di ore da Pocolùm, conquistato dagli spagnoli nel 1528 e attore di rilievo nella sollevazione indigena del 1712. Si trova sull’unica strada di comunicazione per il Guatemala, a duemila metri di altitudine, la sua popolazione è di etnia maya e di lingua tzeltàl.
Ieri mattina sono stato invitato a casa del maestro Juan, una figura di spicco nel pueblo, per fare colazione a base di zucchine e di un altro non precisato tubero, serviti lessi, per niente graditi al mio palato, sia per quell’ora della mattina, più adatta a un cappuccino e un cornetto, che per il loro particolare sapore. Juan, che parla tzeltàl, tzotzìl e spagnolo, ha 58 anni ma, stranamente, ne mostra molti di meno, capelli neri a parte. Eppure è uno che nella vita non si è risparmiato, sottoponendosi a impegni fisici decisamente logoranti. Nella sua lunga carriera di maestro, ha insegnato a Cancùc per otto anni, tornando a casa solo il fine settimana e percorrendo a piedi difficili sentieri di montagna per otto ore, prima di arrivare sfinito a destinazione. Inoltre ha insegnato nella fitta e inospitale Selva Lacandona per vari altri anni, tornando a Oxchùc solo una volta al mese, a piedi, attraverso le montagne e le pianure che lo separavano da casa e dalla famiglia, per interminabili ventidue ore. Infine, più di recente ha tenuto le sue lezioni vicino a Agua Azùl, luogo di cascate spettacolari, che in auto si raggiunge in circa tre ore di asfalto con curve e saliscendi estenuanti. Per arrivare a scuola lui percorreva ogni giorno quel tragitto a cavallo in cinque ore, in sole cinque ore, perché tagliava per i sentieri impervi delle montagne boscose di Los Altos e costeggiava dirupi vertiginosi.
La stessa mattina ho conosciuto Pedro, un artigiano molto vivace e dalle mille risorse. Ha la stessa età del maestro Juan ed è figlio di Alonso, un personaggio che ha fatto la storia della comunità di Oxchùc, come longevo Alcàlde (sindaco) del pueblo e come primo insegnante della sua storia.
Ho conosciuto Pedro come collaboratore di primo piano di Padre Fernando, parroco della chiesa di Santo Thomàs che mi ospitava. Tanti anni fa emigrò clandestinamente negli Stati Uniti e ci rimase per 12 anni, facendosi là una famiglia e generando quattro figli. A Oxchùc fa il falegname, ma in Arizona, dove iniziò la sua avventura di emigrante senza fissa dimora, per sopravvivere ha fatto di tutto. Quando non aveva altro lavoro, andava a caccia di vipere, racconta. Intorno alla città dove abitava, che sullo sfondo aveva il deserto, c’era davvero una grande quantità di vipere. D’estate, verso le 10 del mattino, quando il sole era ben alto nel cielo, lui andava nei pressi di una pozza d’acqua ad aspettare che le insidiose serpi arrivassero. Le spiava da lontano, ben nascosto, era una caccia che richiedeva tempo e molta pazienza, e lui ne aveva naturalmente, ma soprattutto aveva dei grandi vuoti allo stomaco che gli davano la carica giusta per tenere la posizione e raggiungere lo scopo. Strisciavano silenziose tra la sabbia e le pietre calde che anticipavano il deserto una, due, a volte tre vipere nella stessa mattina andavano verso l’acqua e Pedro con spericolata abilità le catturava, per poi consegnarle a un laboratorio chimico che conosceva e ricevere quattro dollari per il veleno di ciascuna. Qualche volta le vendeva ai ristoranti della città che gliele pagavano 2 dollari l’una.
Un altro dei lavori incredibili che aveva fatto era stato quello di catturare ratti, grossi topi. Era un lavoro difficile, doveva frequentare ambienti spesso maleodoranti e insani. Qualche volta doveva calarsi nelle fogne, perché lì ne trovava di veramente grossi. Anche quelli li vendeva ai laboratori scientifici della città che li usavano per fare gli esperimenti. C’era anche chi li mangiava, ma a lui, dice, facevano schifo.
Conobbe un’americana, la sposò e da lei ebbe quattro figli. Condusse con lei una vita normale e visse dignitosamente del suo lavoro da ebanista. Fino a quando, ormai cittadino americano, nel 1990 fu richiamato nell’esercito degli S.U. per andare a combattere la guerra del Golfo. Non aveva nessuna familiarità con la violenza, la sentiva contro la sua natura, e poi quella non era la sua guerra e, a pensarci bene, anche gli S.U. non erano la sua terra. Così disertò la chiamata alle armi e fuggì, ritornando in Chiapas, a Oxchùc, il suo paese, dove si sposò ed ebbe altri sette figli.
Il sorprendente indigeno assicura di provvedere al mantenimento dei figli che ha lasciato in Arizona, con i quali si tiene in regolare contatto telefonico. Desidererebbe tanto rivederli, confida, ma non può tornare negli S.U. perché lo arresterebbero come disertore e lo terrebbero in carcere per il resto della sua vita.
Fra le storie che mi ha raccontato c’è anche quella di una sua lunga amicizia con una ragazza italiana, una cantante. Lei era venuta molti anni fa in Chiapas a fare turismo, insieme a un’amica. Avevano noleggiato un fuoristrada e da S. Cristòbal de las Casas volevano raggiungere Cancùn, la famosa costa dei Maya, meta turistica internazionale a ottocento chilometri di distanza. Appena fuori dalla città di S. Cristòbal, chiesero agli indigeni locali informazioni circa la strada per Cancùn, ma per un equivoco dovuto all’assonanza tra i nomi, loro le indirizzarono a Cancùc, un pueblo a meno di due ore dalla città, non lontano da Oxchùc. Così le due ragazze si impelagarono in un viaggio che le avrebbe a un certo punto portato su terreni accidentati di tale asperità da provocare la rottura della coppa dell’olio del fuoristrada. Perduto tutto il lubrificante, bruciarono il motore e la macchina si fermò verso sera su una strada sterrata in mezzo alle montagne, a metà strada tra Oxchùc e Cancùc. Purtroppo, le uniche persone che passavano da lì erano indie, di lingua esclusivamente maya, e le ragazze, oltre all’italiano, sapevano parlare solo inglese, per cui presto si resero conto di essere tagliate fuori dal mondo civile e attorniate da gente “primitiva” di cui non conoscevano né la lingua, né le intenzioni.
Con l’infittirsi delle ombre della notte, le due giovani, terrorizzate, si chiusero a chiave all’interno dell’auto e in breve tempo furono circondate da una piccola folla di indigeni che, pur non sapendo come aiutarle, vivevano quella presenza estranea come un evento raro da non perdere e, nonostante il buio, sostavano curiose intorno al mezzo, inscenando, agli occhi delle sventurate, un’involontaria quanto inquietante forma di assedio.
La notizia delle ragazze in panne sulla strada per Cancùc si sparse rapidamente nella zona e Pedro fu presto individuato come la persona più adatta ad intervenire, perché era conosciuto come uomo di mondo che oltre tutto sapeva parlare bene l’inglese, per cui fu invitato nel cuore della notte a recarsi sul posto. Il suo arrivo fu accolto dalle ragazze con un’emozione al limite dell’isterismo, con pianti e risa incontrollabili. L’uomo le portò poi a casa sua e provvide nel tempo più rapido possibile alla riparazione dell’auto. Così, agli occhi delle ragazze, Pedro diventò il loro salvatore e iniziò un rapporto e un’amicizia, che prese consistenza prima nel lungo periodo che trascorsero in casa dello stesso Pedro, poi con una di loro in particolare, una cantante in carriera, l’amicizia si mantenne viva attraverso lettere ed altro materiale che lei continuò a inviare all'indimenticabile “salvatore” per anni, senza che, tuttavia, lui ne capisse la lingua e le rispondesse. Tra le cose che la ragazza gli aveva inviato c’erano delle cassette audio con incise le sue canzoni in italiano e i suoi concerti, che Pedro ancora conserva.
Anche Alonso, il vecchio padre di Pedro, ha avuto 11 figli, ma da un solo matrimonio. Ora molti di loro sono sparsi per il Messico e qualcuno é anche emigrato all’estero. Lui é stato per molti anni presidente del municipio (Alcàlde) di Oxchùc, ma la professione che gli ha dato da vivere é stata quella dell’insegnante. Aveva studiato fino alla sesta della primaria, imparando a leggere, scrivere bene e poco più, e poi, con l’attrezzatura culturale acquisita, notevole per quei tempi nel suo ambiente, si era messo a insegnare nel suo pueblo.
Alonso appartiene alla Costùmbre, quella setta religiosa che mescola elementi di religiosità cristiana con residui del culto del Sole ereditato dai progenitori Maya. Il giorno che l’ho conosciuto e gli ho parlato eravamo nella chiesa di Santo Thomàs, mentre un gruppo di persone della sua fede religiosa, uomini donne e bambini, pregava e ballava a pochi passi dall’altare al suono duro degli strumenti Maya. Per terra si vedevano un sacco di bottiglie vuote di coca cola e sulle panche c’erano, più o meno sdraiati, molti borràchos, uomini ubriachi di posh, la bevanda alcolica di questa terra che “scaccia gli spiriti maligni”. Alonso, vedendomi attratto dalla scena poco edificante a poca distanza da noi, mi ha detto che anche lui quando era giovane beveva il posh durante i riti religiosi, ma adesso la Costùmbre , di cui lui è un esponente autorevole, permette l’uso della bevanda solo nelle grandi festività dell’anno. Dalla scena vista in chiesa, dunque, devo dedurre che il gruppo che celebrava il rito ieri faceva parte di una minoranza deviante, o sospettare che l’interdizione dell’uso dell’alcool è da considerarsi solo un provvedimento di facciata in ossequio alla “morale dei nuovi tempi”.


(delegazione a Tuxtla Gutierrez)

V Stamattina, giorno fissato per l’appuntamento col segretario del Governatore dello Stato del Chiapas, Juan Sabines Guerrero, lungo la strada per Tuxtla, mi chiedevo ancora una volta: “Sarà l’ultimo viaggio? Quanto è vicino il lieto fine dell’avventura?”.
Mi dicevo che la risposta, con un po’ di fortuna, sarebbe potuta venire anche oggi stesso, non dovevo fare altro che aspettare ancora qualche ora e forse l’avrei saputo. In tutta questa storia sono accadute già tante cose incredibili, quindi tutto può ancora accadere.
Negli ultimi dieci anni la mia esperienza personale é sembrata incrociarsi clamorosamente con la cosiddetta strada del soprannaturale, ma devo dire che questo è ciò che è sembrato ad altri più che a me, perché io ritengo l’azione divina sempre all’opera, senza gli “sbalzi d’umore” che noi gli attribuiamo, e credo che noi siamo sempre tutti “immersi” in un ambiente divino quanto meno gremito di “incroci” dalla mattina alla sera. Sette anni fa due eventi sincronici, pieni di coincidenze, questo sì, hanno rivoluzionato l’ambiente e la vita di 90 comunità indigene del Chiapas, e per certi versi anche la mia. E da quel momento molte cose incredibili sono potute accadere.
Chi avrebbe mai creduto, infatti, che nel 2003, l’anno in cui io compivo il mio primo viaggio in Chiapas, le stesse comunità indios che avevo incontrato e frequentato per due mesi avrebbero “visto” la Madonna e ricevuto da Lei la richiesta di costruire una chiesa nello stesso identico posto dove, casualmente, un missionario messicano e uno sconosciuto italiano, il sottoscritto, chiedevano e ottenevano un pezzo di terra per costruirvi un piccolo ospedale? Invece è andata proprio così, e la chiesa voluta dagli indigeni e l’ospedale voluto dagli italiani sono sorti uno accanto all’altra, come un unico progetto, dove i bisogni del corpo e quelli dello spirito delle povere comunità Maya di quelle montagne, un giorno non lontano, avrebbero trovato una possibile risposta.
E chi avrebbe mai detto, infine, che un giorno, il 12 dicembre del 2009, la moglie del Governatore dello Stato, Juan Sabìnes Guerréro, si sarebbe interessata al progetto S.O.S. Chiapas, finalizzato alla costruzione dell’ospedale finanziato dagli italiani? Invece è accaduto, come per caso.
Per arrivare in quel posto quasi sperduto tra le montagne, la first lady con il suo staff aveva percorso l’unica strada asfaltata del territorio di Los Altos e si era trovata nel cantiere di Pocolùm davanti a una folla di circa dodicimila indigeni, affluiti là da varie parti del Chiapas e del resto del Messico, per partecipare a uno straordinario evento, che in quei paesi può verificarsi solo una volta ogni cinquant’anni: la consacrazione di un Santuario. Era il Santuario costruito dagli indios del triangolo montagnoso Tenejapa-Cancùc-Oxchùc su “richiesta” della Vergine di Guadalupe e a lei intitolato. A venti metri dalla chiesa, l’opera grezza del nostro piccolo ospedale aveva poi attirato l’attenzione della signora del Governatore, la quale, raccolte le dovute informazioni, aveva promesso di fare qualcosa per contribuire a completarlo. Adesso io mi trovo qui per dare una spinta, in qualche modo, a quella promessa.
Dopo quasi due ore di strada, dalle montagne di Los Altos siamo arrivati nella piana di Tuxtla Gutiérrez, scendendo oltre mille e cinquecento metri di quota più in basso. Ci ha subito investiti un’onda di calore di venti gradi superiore a quello della partenza da S. Cristòbal e per me, non abituato a simili sbalzi termici, è iniziato una specie di calvario, un’esperienza che davvero non mi aspettavo. Ad appena mezz'ora dall'arrivo in città, ho cominciato a sentire degli strani e forti rumori all'intestino, mentre la mia testa veniva avvolta da una cappa di torpore irresistibile, come un colpo di sonno, nonostante fossimo alle prime ore del mattino. È così iniziata una bollitura infernale di tutta la mia persona che non mi avrebbe abbandonato per il resto di quasi tutta la giornata.
Il gruppo di persone che era con me sembrava su un altro pianeta, lo sentivo lontano, ovattato, parlava, rideva, aveva fame, aveva sete… Io avevo soltanto un sonno tremendo, non riuscivo a tenere gli occhi aperti, alle dieci del mattino, e l’attività mentale era quasi azzerata. Poi, a un certo momento, i forti e continui rumori all'intestino, che sembrava ribollire come una pentola sul fuoco, mi hanno in qualche modo svegliato e posto d’urgenza un preciso quesito: dove avrei potuto trovare un bagno?
Era una tragedia: come avrei fatto ad incontrare il rappresentante del governo in quelle condizioni? Ciò che mi accadeva rischiava di vanificare lo scopo più importante del mio viaggio in Chiapas. E meno male che non avevo indossato la giacca e i pantaloni che mi ero portato dall’Italia per la speciale occasione, perché mi sarei presto sciolto in una pozza di sudore e di me, vestito a parte, non sarebbe rimasto più niente da riportare in patria. Tranne una bottiglia, forse, con i miei poveri resti liquefatti.
L’incontro programmato che abbiamo avuto al Dipartimento di Archeologia con alcuni funzionari statali, intorno alle dodici e trenta, è stata un’anticipazione del disastro che prevedevo mi aspettasse dal Governatore. Il dirigente del Dipartimento parlava e io, più che ascoltare, lottavo per tenere gli occhi aperti e per non crollare steso sul divano dove mi trovavo. Lo sforzo era tremendo ma non era sufficiente a impedirmi di tanto in tanto di chiudere gli occhi sotto lo sguardo perplesso dei miei importanti interlocutori. Per non parlare degli stimoli bassi e continui che dovevo controllare aspettando con angoscia la fine dell’incontro.
La morsa del malessere, per fortuna, si è allentata verso le sei del pomeriggio quando il calore si è appena smorzato. Più tardi, quando è arrivata l’ora dell’incontro cruciale, le mie condizioni erano nettamente migliorate, ero sveglio, capivo ciò che mi succedeva, mi sentivo rinato.
Il segretario del Governatore, una persona giovane e squisita, ci ha accolti come delle autorità importanti, con una gentilezza, un’affabilità e un riguardo davvero inaspettati. Con lui, abbiamo fatto riferimento alla visita della signora del Governatore a Pocolùm e alla promessa che ci aveva fatto, quindi abbiamo presentato una richiesta formale di intervento da parte del Governo per un contributo al completamento dell’ospedale finanziato fin qui dagli italiani. Il giovane funzionario ci ha detto, in sintesi, che il Governatore era già stato sensibilizzato sull’argomento da sua moglie e che, a suo parere, sarebbe stato senz’altro disponibile a intervenire a favore dell’opera di Pocolùm, che riteneva di importanza vitale per gli indigeni e meritevole dell’intervento dello Stato. Rivoltosi a me, poi, mi ha ringraziato ripetutamente per l’attenzione alla causa indigena e per la grande generosità degli italiani, a cui mi ha pregato di portare, a nome suo e del Governatore, il saluto, il cordiale ringraziamento e i sensi vivissimi della gratitudine del loro popolo per quanto avevamo già fatto fino a quel momento e per quello che augurabilmente avremmo continuato a fare per le comunità bisognose del Chiapas.


VI Lungo tutto il viaggio, alle mie battute sulle condizioni irreversibili e “terminali” della sua vecchissima Jeep, Padre Martin si è sganasciato dal ridere, come sempre. Quell'auto, a dire il vero, oltre ad essere vetusta è anche molto spartana: abitacolo angusto, priva di imbottiture, sembra mancare completamente di ammortizzatori, le mie ossa ne sanno qualcosa, e la marmitta si rompe dopo appena tre giorni dall'ultima saldatura, così che assorda regolarmente le montagne con il suo ruggito da leone agonizzante, come io lo definisco, anche se preannuncia inequivocabilmente il passaggio del Padre con molto anticipo ai solitari abitanti dei cerros.
Ma è un passaggio, il suo, che porta allegria. Ad ogni incontro per strada, con uomini, vecchi o bambini, con conoscenti o estranei, lui sorride e si sbraccia per salutare calorosamente e tutti gli rispondono ricambiando gesti e sorrisi. Quest’uomo, finalmente, è un missionario sulla cui santità non ci possono essere dubbi. Nessuna ambiguità, dedizione totale e incondizionata al suo ministero, al servizio dei poveri senza alcuna concessione ai riti e ai richiami della mondanità, alle lusinghe del potere e ai suoi piaceri, il cui fascino sottile, come si sa, talvolta non risparmia neanche i sacerdoti, di ogni latitudine e di qualunque condizione.
Ha meno di quarant’anni, è stato in Amazzonia per molti anni, isolato dal mondo e in un ambiente naturale fortemente ostile, e dice che ora in Chiapas fa la vita del pascià, nonostante le durezze a cui la sua esistenza di missionario tuttora lo sottopone. Invitato da me a venire in Italia, a conoscere, tra l’altro, i luoghi dove la sua amata fede ha messo le prime e più profonde radici (Roma, Assisi, ecc.), risponde ringraziando gentilmente e spiegando che preferisce rimanere al suo posto, a lavorare con i suoi fratelli indigeni. Alla sua fidanzata, quando le comunicò la decisione di farsi sacerdote, disse che lui l’amava ma che il suo amore non riusciva a stare nei confini di una scelta matrimoniale perché cercava gli spazi di una dimensione “grande come l’amore di Dio”.
Ultimamente ha subito un assalto da un indigeno con il machete che si è parato minaccioso davanti alla sua Jeep lungo un percorso di montagna. Padre Martin si è molto spaventato, naturalmente, però ha cercato di dialogare con l’assalitore e gli ha spiegato che non aveva niente da dargli, era un missionario, viveva con quello che gli offrivano i fratelli indigeni e in quel momento particolare era completamente al verde. Al che lo sfortunato brigante occasionale si è scusato molto con lui ma lo ha anche rimproverato per non avergli detto subito che era un sacerdote, perché, ha detto, così si sarebbero almeno risparmiati entrambi le brutte emozioni della sua banditesca improvvisata.
Quando siamo arrivati alla comunità di Matzàm era prima mattina, dopo quasi un’ora e mezza di percorso disastroso disseminato di buche come crateri, di salite e discese ripide da affrontare a passo d’uomo e aggrappati saldamente alle maniglie dell’abitacolo dell’auto.
Saremmo rimasti due giorni in quella comunità e io avevo il mio sacco a pelo, l’asciugamano, la bottiglia dell’acqua e tutto il resto per affrontare le esigenze primarie di quella permanenza e qualche suo disagio. Appena arrivati, Padre Martin mi ha fatto cenno di seguirlo in un ambiente pieno di fumo e illuminato dalla sola luce che passava dalla porta d’ingresso. Era una baracca che fungeva da cucina, affollata di donne avvolte dal fumo, indaffarate intorno a un grande fuoco dove bollivano due pentole gigantesche ripiene di pezzi di qualcosa che galleggiava in un liquido la cui natura e colore non era possibile distinguere. In corrispondenza del fuoco, in alto, penzolava una distesa di spesse strisce nere, lunghe una trentina di centimetri, appoggiate a numerosi fili fissati alle pareti opposte della stanza. Anche se la luce era scarsa e il fumo confondeva tutto, lo spettacolo era suggestivo e ho subito tirato fuori la macchina fotografica per catturare la scena.
Salutate le donne e usciti all’aperto, ho chiesto al Padre che cosa accadesse in quella cucina. Mi ha spiegato che avevano ammazzato un grosso toro e ora lo stavano cucinando per rifocillare i numerosi convenuti alla festa della comunità che ci sarebbe stata l’indomani. E quella roba appesa in alto, in direzione del fuoco? Erano strisce di carne dell’animale ucciso che venivano affumicate.
Abbiamo salutato alcune decine di indigeni del posto, stretto tantissime mani, sorriso a tutti e poi siamo stati invitati a colazione nel comedòr, la baracca dove si pranza. Una volta sistemati intorno a una lunghissima tavola, c’è voluto poco per rendermi conto che lo spettacolo a cui avevo assistito in cucina e che avevo immortalato in qualche scatto fotografico per meglio ricordare, era più della registrazione di una scena di folclore: era la mia colazione e il mio pranzo! Le coppette di plastica che, infatti, ho trovato allineate sulla tavola sono state riempite di li a poco con quelle strisce nere che avevo appena visto appese in cucina, come colazione da consumare con le mani. Ora mi toccava onorare quella tavola, facendo appello ai miei migliori sentimenti di amicizia per quella gente, al fine di assolvere, ahimè, al difficile compito di trangugiare tutto col massimo della naturalezza e un’espressione il più possibile compiaciuta. La mia sorpresa più grande però, di lì a poco, è stata quella di apprendere, già al primo boccone, che stavo per fare colazione con della carne tenerissima e di ottimo sapore, degna finalmente di sincero apprezzamento. Era un’autentica squisitezza, ma chi l’avrebbe mai detto!
La sera, andando a dormire, mi sono accorto che ultimamente avevo cancellato dalla memoria quanto poteva essere duro un giaciglio di tavole. Per fortuna, l’asciugamano che avevo messo nel bagaglio, su insistenza di P. Martìn, era piuttosto grande e ho potuto piegarlo più volte per farne un leggero spessore per le ossa su cui dovevo stendermi e sostare tra una giravolta e l’altra di quella lunga notte. Quando la prima luce del giorno finalmente è arrivata, mi sono alzato e ho posto fine del tutto a quella sorta di “danza del tavolaccio” che avevo iniziato la sera prima. Sono uscito all'aperto dalla mia claustrofobica cella-dormitorio e ho aspettato che il sole sorgesse. Mentre la natura si svegliava mandando i suoi primi richiami al nuovo giorno, l’ho visto spuntare dietro un cerro lontano e l’ho riconosciuto: era la primigenia sorgente della vita, la palla di fuoco che ci illumina e ci riscalda, era lo stesso sole che sorge tutte le mattine sulla mia casa, in Italia, sui mondi antichi come questo e sugli altri, nei diversi angoli della terra.


VII Questa volta torno a casa un po’ deluso. Il segretario del governatore ci aveva promesso una risposta in termini di giorni e invece non è arrivato niente. Che vorrà dire? Che non faranno niente di ciò che ci aveva fatto credere? A questo punto posso anche pensarlo. Ma io non dovevo aspettarmi per forza qualcosa da quel governo, avrei dovuto considerarla una remota possibilità, solo un tentativo che valeva la pena di fare, che avevo il dovere di fare. E tuttavia, a un certo momento, mi sono evidentemente illuso, ho già immaginato uno scenario conclusivo, da sogno realizzato. Nell’abbandonare forzatamente quello scenario, quindi, ho sentito come uno schiaffo in pieno viso che mi ha riportato bruscamente alla realtà, lasciandomi per un po’ intontito e incapace di reagire.
Ora sarà duro riprendere il lavoro, incontrare le persone, le scuole, organizzare gli eventi, le mostre, i concerti… Ma sarà solo un po’ più duro degli altri anni. Il miracolo della generosità, della buona volontà, della consapevolezza di tanti di appartenere alla stessa famiglia umana tornerà a fare il suo lavoro. E io, e tutti quelli che vorranno, a questo lavoro concorreremo ancora, daremo con fiducia una mano.



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